Un reportage dal porto di Licata (Agrigento), dove la Mare Jonio e la barca a vela Alex, ormai dissequestrate, sono ormeggiate e sulle quali si stanno ultimando i lavori di adeguamento prima di riprendere il mare e tornare a fare ciò che hanno fatto finora: cercare di salvare la vita a chi attraversa il Mediterraneo in cerca di speranza.
Giovedì 27 febbraio 2020 (dalla Mare Jonio)
Lascio Palermo la mattina presto di un giovedì che promette di essere caldo e assolato come i giorni precedenti. Un anticipo di primavera folgorante che dal nord al sud d’Italia si protrae ininterrotto da quasi due mesi.
Qualche ora di auto in un paesaggio collinare di estrema bellezza, che dalla costa settentrionale mi porta sulle rive meridionali dell’isola, a Licata, dove da qualche mese è attraccata la Mare Jonio, finalmente dissequestrata – insieme alla barca a vela Alex – grazie alle ordinanze recentemente emesse dall’autorità giudiziaria.
Ho appuntamento con Giovanni Viva, il primo ufficiale di bordo, conosciuto al telefono qualche giorno fa e che ora mi aspetta sulla banchina del porto insieme ad alcuni membri dell’equipaggio, impegnati a ultimare i lavori di adeguamento dell’imbarcazione in vista di una ripartenza che si spera ormai imminente.
Scatto qualche foto e, soprattutto, comincio a chiacchierare con Antonio, Valentino, Vincenzo e Antonino, che mi accolgono a bordo con grande cordialità, e ho subito l’impressione di entrare in una famiglia allargata, dove le incombenze e la routine quotidiana si susseguono in un clima di piacevole disponibilità.
Ero già stato sulla Mare Jonio nel febbraio dello scorso anno, quando con Franco Monnicchi (presidente di Emmaus Italia, organizzazione per cui mi occupo della comunicazione) venimmo a Palermo per la conferenza stampa che annunciava ufficialmente il sostegno del movimento fondato dall’Abbé Pierre al progetto di Mediterranea. Un sostegno che ha permesso finora, grazie alla generosa solidarietà di molte comunità Emmaus e di singoli individui sia in Italia sia all’estero, di raccogliere più di 50.000 euro in donazioni, rendendo sempre più stretta una collaborazione con la piattaforma sociale che da poche settimane è anche diventata un’associazione ampia e ramificata, nel cui direttivo Emmaus Italia è entrata a far parte.
Da allora molte cose sono successe, e molte sono state le missioni di ricerca e soccorso portate a termine dalla motonave nel corso dei mesi passati. Un incredibile impegno collettivo condiviso da un numero sempre maggiore di associazioni, volontari e gruppi sparsi per l’Italia e alcuni Paesi europei, grazie al quale molte vite sono state tratte in salvo, strappate a morte certa in quel tratto di Mediterraneo che è stato progressivamente trasformato – con un cinismo senza precedenti – in un infinito deserto liquido che non lascia scampo.
Da qualche anno mi occupo, come fotografo, di testimoniare ciò che accade sulle frontiere d’Europa, lungo quei tragitti percorsi quotidianamente da persone che tentano di penetrare, con enormi sofferenze, nella ‘fortezza Europa’, da parte sua impegnata a respingere masse di umanità alla ricerca di nuova vita in fuga da violenze, guerre, miserie che noi non possiamo neppure immaginare. Ma con il tempo ho capito che il Mediterraneo è, se possibile, qualcosa di peggio. È la frontiera più pericolosa al mondo: un primato purtroppo confermato dal numero dei decessi di chi ha provato ad attraversarlo su imbarcazioni di fortuna, con la speranza di essere intercettati e salvati. Centinaia di donne, bambini, uomini. Stipati e infreddoliti, senza acqua né cibo, condannati ad attendere ore o giorni sotto il sole a picco, in mezzo al nulla di acqua scura che distrugge le speranze, che uccide piano piano.
Ho in mente queste cose quando salgo a bordo di Mare Jonio. E tento di immaginare cosa possano rappresentare, per chi viene soccorso, il suono delle voci dell’equipaggio e le luci del ponte della nave sbucate all’improvviso dal buio pesto della notte, le scialuppe delle unità SAR quando si avvicinano con giubbotti e vestiario asciutto: un appiglio di salvezza, una rinascita che pone fine a un incubo terribile. E ‘rinascita’ è la parola che viene ripetuta più spesso nel corso delle mie conversazioni con il primo ufficiale Viva. Ventotto anni, Giovanni è il membro più giovane dell’equipaggio, ed è alla sua seconda missione con la Mare Jonio. Gli chiedo cosa significhi per lui essere lì, l’aver fatto una scelta che (penso io) dev’essere stata tutt’altro che semplice. E la risposta non necessita di molti giri di parole: salvare la vita a chi rischia di scomparire sott’acqua. Abituato ad andare per mare già da qualche anno, a Giovanni è subito sembrato inevitabile vivere questa esperienza, così forte e intensa che – mi dice – ti resta attaccata addosso, come un punto della tua vita in cui c’è un prima e c’è un dopo. Mi dice anche di ricordare come se fosse adesso la missione dell’agosto dello scorso anno, l’ultima effettuata da Mare Jonio, quando vennero tratte in salvo 98 persone, tra cui molti bambini piccoli e piccolissimi; il suono squillante delle loro voci, la loro vivacità incontenibile, un’allegria contagiosa nonostante tutto. Lo ascolto e mi vengono in mente quei giorni concitati, quando, leggendo i quotidiani nazionali, in tanti abbiamo seguito le vicende dello sbarco (prima le donne e i bambini, poi gli uomini), il fermo della nave, la sanzione al comandante e, infine, il sequestro e il trasferimento al porto di Licata. Di quei giorni resta ora un oggetto che noto appena salgo a bordo: un piccolo peluche che qualcuno ha attaccato sul pontile. Un segno che trasmette gioia e spensieratezza e che è impossibile non restare a guardare.
Prima di scambiare qualche parola con il comandante che mi aspetta sul ponte di comando, chiedo un’ultima cosa a Giovanni: sei giovane, come immagini il tuo futuro? Ancora una volta la sua risposta è netta, diretta, e mi fa capire che la scelta fatta nei mesi precedenti è stata quella giusta, quella che era giusto fare: cercare di salvare chi è in pericolo di morte è l’atto più naturale e umano che ci sia consentito di compiere; quando vivi un’esperienza così forte e totalizzante nulla è più come prima, perché hai aiutato un tuo simile, e le distinzioni di lingua, colore della pelle, religione o provenienza perdono ogni importanza e significato.
Sessant’anni, in mare da quasi quaranta, Giovanni Buscema è invece il comandante della Mare Jonio dalla scorsa estate. Era lui al timone della nave nel corso della missione che ha salvato quelle 98 persone di cui mi ha parlato il primo ufficiale. Due sedie, la scrivania piena di apparecchiature di bordo, mappe e manuali di navigazione: è qui che Giovanni mi racconta di sé, dei suoi anni passati sulle navi che hanno attraversato i mari del mondo, mesi e mesi lontano da casa, intorno solo acqua e cielo, freddo e caldo a scandire le giornate e le notti in navigazione. Viene in contatto quasi per caso con il progetto di Mediterranea. Alcuni amici e colleghi gli dicono che i responsabili della piattaforma sociale stanno cercando un comandante e lui decide di dire sì. È l’inizio di un’esperienza, anche nel suo caso, che non avrebbe mai pensato di vivere; tanto forte e significativa da segnarlo in profondità e per sempre. Con il sorriso sulle labbra Giovanni mi parla della vita di chi lavora sul mare, delle difficoltà, della fatica ma anche delle tante soddisfazioni, delle rotte e dei mari di cui in molti casi conosce storie e caratteristiche. Poi l’incontro con Mediterranea e la Mare Jonio, che cambia tutto: ora la sua professionalità è impiegata per effettuare missioni di ricerca e soccorso, per condurre l’imbarcazione nel tentativo di intercettare natanti carichi di persone da salvare prima che sia troppo tardi. E qui le parole del comandante diventano le stesse del primo ufficiale. Le età sono diverse, così come lo è l’esperienza professionale, ma quando chiedo anche a lui cosa significhi poter operare su una unità di ricerca e soccorso non ha tentennamenti: in quel gesto tanto naturale quanto antico emergono il senso profondo dell’essere umano, la solidarietà e la necessità ineluttabile di fare l’unica cosa necessaria in quei frangenti, salvare la vita al prossimo. Null’altro.
Vista da qui, dall’estremo sud della Sicilia, dove l’azzurro del mare è abbacinante al limite del sopportabile, tutta la surreale gestione mediatica della potenziale pandemia virale che per una settimana ha gettato l’Italia in un panico imprevedibile sembra lontana anni luce, irreale nella sua folle dinamica capace di oscurare quelle che continuano purtroppo a essere le irrisolte emergenze del nostro tempo, tra cui quella che costringe migliaia di persone a rischiare di morire per tentare di rifarsi un’esistenza degna di questo nome.
Ora la Mare Jonio e la barca a vela Alex, ormeggiata a pochi metri di distanza, sono finalmente libere di riprendere il mare, cosa che potrebbe avvenire a breve dopo mesi di inerzia forzata.
È necessario tornare nel cuore del Mediterraneo il prima possibile, e lo si può fare solo con l’aiuto di coloro i quali credono che salvare la vita a un proprio simile sia davvero l’unico gesto capace di ridare umanità a tutti. Nessuno escluso.
Luca Prestia
Emmaus Italia
In questo momento l’aiuto di ognuno può essere prezioso.
Qui è possibile contribuire con una donazione per permettere alla Mare Jonio e alla Alex di tornare a navigare:
con un versamento sul conto corrente intestato a Emmaus Italia
Iban: IT 13 U 05018 02800 000015118102
Causale: contributo per Mediterranea