Condividiamo volentieri sulle nostre pagine un’analisi dell’amico Giuseppe De Marzo pubblicata qualche giorno fa sul settimanale «Left»
Senza giustizia ambientale non c’è giustizia sociale
Il sud, in Antartide, nel periodo 1981-2010 l’area ghiacciata è stata nella media di 7,19 milioni di chilometri quadrati. Il primo gennaio del nuovo anno si è ridotta a 5,47 milioni di km2. Se la tendenza venisse confermata l’estate dell’emisfero sud segnerebbe il livello più basso di ghiaccio di tutto l’Olocene. A Nord non va meglio. La calotta polare artica risente maggiormente dei cambiamenti climatici rispetto a qualsiasi altra zona del pianeta: l’aumento della temperatura media annuale è il doppio di quella globale. Il ghiaccio si sta sciogliendo a ritmi molto più veloci rispetto a quanto previsto dalla scienza. Quasi 200 miliardi di tonnellate d’acqua solo a luglio si sono riversate nell’atlantico. Tre volte di più rispetto alla media. Mentre i ghiacciai si sciolgono, il polmone verde della nostra casa comune, l’Amazzonia, rischia di scomparire. I segnali indicano una trasformazione della maggiore copertura forestale del pianeta in qualcosa di simile alla savana africana. Secondo i calcoli la savanizzazione avrebbe luogo se il tasso di deforestazione superasse la soglia del 25%. Oggi è del 17%, ma arriva al 20% nella parte brasiliana e con il governo Bolsonaro purtroppo il dato è in crescita.
Metà delle foreste tropicali e temperate del mondo è già scomparsa dalla nostra vista. Tra il 1970 e il 2010 si è estinto il 52% della fauna del pianeta (mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci). A partire dal 1980 il 35% delle mangrovie del mondo e il 20% delle barriere coralline sono andati totalmente distrutti, mentre il 33% dei suoli è degradato, e per questo non cattura più il carbonio dall’atmosfera. Da poco è stato approvata a Parigi l’ultima relazione dell’Ipbes – Gruppo internazionale sulla biodiversità e gli ecosistemi. Afferma che il tasso di estinzione delle specie accelera ad un ritmo mai conosciuto prima. Secondo uno studio dell’Università di Oxford, pubblicato dall’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti, le conseguenze più drastiche del riscaldamento si registrerebbero però a livello degli oceani, che attualmente assorbono il 90% delle emissioni dei gas a effetto serra. La biodiversità, lo spazio bioriproduttivo, i beni comuni ed i servizi ambientali sono la nostra unica rete di protezione, definiscono il livello della nostra sicurezza, rappresentano la nostra comune eredità, garantiscono la nostra vita e la riproduzione della stessa, costituiscono il patrimonio delle generazioni che verranno.
Questa rete di relazioni e connessioni che ci rende tutti e tutte interdipendenti, corrispondenti e reciproci, è sempre più fragile e rischia di scomparire. Questa minaccia alla nostra vita è la conseguenza diretta dell’attività umana e del modello capitalista. Per evitare la catastrofe dobbiamo uscire da questo modello ormai insostenibile, consapevoli che oggi la precondizione per raggiungere la giustizia sociale sta nella giustizia ambientale ed ecologica. I diritti umani si garantiscono in maniera tangibile solo se prima riconosciamo e difendiamo i diritti della natura. La nostra vita dipende dalla continuità e dall’equilibrio del resto della vita intorno a noi. Adattarsi e mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici significa in concreto cambiare modello produttivo, estrattivo ed industriale, investendo sulla riconversione ecologica delle attività produttive e della filiera energetica. È questa l’unica strada che ci consente allo stesso tempo di rimettere insieme il diritto al lavoro con il diritto alla salute. Nonostante le minacce e le catastrofi che già ci colpiscono, alle denunce della scienza ed ai numeri che nel nostro Paese denunciamo un aumento di povertà e disuguaglianze senza precedenti, che fa il governo? Continua a portare avanti politiche che fanno crescere ingiustizie sociali, ambientali ed ecologiche, rendendoci tutti più insicuri. In assenza di un’opposizione capace di lottare per la giustizia ecologica, ambientale e sociale, l’unica strada possibile è quella di lavorare per dare sempre più forze, gambe e voce alle tante soggettività nate anche nel nostro Paese per contrastare le ingiustizie sociali ed ambientali. A partire da queste abbiamo la necessità e l’urgenza di identificare il perimetro di un nuovo blocco sociale, oggi ben più grande di quello delimitato dai confini del Novecento. Ci accorgeremmo che la storia non è affatto finita, ma siamo solo all’inizio.